La vergogna e il potersi concedere di non farcela
Luglio 2021: Simone Biles, una delle più grandi atlete al mondo di ginnastica artistica si ritira dalla finale a squadre e individuale alle olimpiadi di Tokyo: la stampa internazionale si divide tra chi parla solo in termini di risultato e interpreta, quindi, questa scelta come una sconfitta e chi la legge come un esempio da seguire perché Simone ha dato priorità al proprio benessere. La pressione che sente sulla performance e sul risultato è schiacciante. Afferma di “sentire sulle sue spalle il peso del mondo. Dobbiamo proteggere le nostre teste e i nostri corpi, e non solo andare lì e fare quello che il mondo vuole che facciamo”.
Dichiara anche di aver tratto ispirazione dalla tennista Naomi Osaka che, pochi mesi prima, aveva disertato una conferenza stampa del Roland Garros perché la situazione avrebbe potuto scatenare la propria ansia, dando quindi il giusto valore al proprio benessere mentale.
Gli esempi di queste due sportive possono indurci a riflettere sull’importanza, che ha per tutti noi, di poter riconoscere i propri limiti, le proprie vulnerabilità e le proprie sconfitte senza che questi vengano vissuti come aspetti negativi.
Spesso, proviamo un senso di inadeguatezza e vergogna nel percepire le nostre fragilità, perché sentiamo di disattendere uno standard che ci si è posti e quelle che sentiamo essere le aspettative degli altri su di noi.
Che cos’è la vergogna?
La vergogna è un’esperienza emotiva che può essere molto intensa ed essere accompagnata dalla percezione di un fallimento totale o parziale della propria dignità e dalla sensazione del pericolo dell’abbandono affettivo.
È uno stato emozionale che può minare l’integrità del sé e delle proprie capacità e può attivarsi non solo quando mettiamo in atto un comportamento, ma anche quando lo immaginiamo, rappresentando un giudizio negativo su noi stessi perché si discosta dal pensiero e dalla condotta che riteniamo ideale. Può riguardare i propri comportamenti, i propri pensieri, le proprie emozioni e il proprio corpo.
Quando si prova questa emozione, ci si può sentire inferiori, profondamente giudicati e diversi da come si vorrebbe essere; ne consegue un forte disagio anche nella relazione con l’altro. A livello comportamentale, ci può essere una tendenza all’isolamento, cercando di distogliere lo sguardo e di nascondersi, sperando di essere invisibili. Un’altra reazione può essere di rabbia verso se stessi o verso coloro che riteniamo essere l’origine del nostro senso di inadeguatezza.
Come nasce la vergogna?
La vergogna è un’emozione secondaria, cioè fa parte di quella categoria di emozioni che vengono apprese e si sviluppano in seguito all’interazione sociale.
È connessa alla valutazione e alla comprensione degli standard culturali a cui la persona cerca di aderire. Il sentimento di vergogna nasce quando l’individuo devia rispetto alla norma sociale, percependo quel senso di fallimento tipico di quest’emozione.
Compare, di solito, dopo il secondo anno di vita quando il bambino comincia a sviluppare la percezione di sé in relazione con l’altro e a comprendere che le sue condotte e quelle altrui sono mosse da bisogni ed emozioni; comincerà ad apprendere che i comportamenti messi in atto suscitano nell’altro reazioni di accoglienza o rifiuto. In tal modo, comincerà a prestare attenzione all’immagine di sé che rimanda. In tale fase, compare il senso della vergogna che svolge una funzione di autoregolazione e consapevolezza rispetto a ciò che è accettato o meno in un contesto relazionale. Cercherà, quindi, di regolare il proprio comportamento affinché sia accettato.
Il senso di vergogna, però, non si sviluppa solo come capacità autoriflessiva, ma è fortemente condizionato anche dall’ambiente educativo ed affettivo in cui si cresce.
All’interno di contesti relazionali altamente giudicanti nei quali vi è stato un mancato riconoscimento e una scarsa accoglienza di emozioni e vissuti, dove sono stati presenti le punizioni corporali, insulti, svalutazioni, tale modalità espressiva può divenire, non più una capacità adattiva, ma un’emozione disfunzionale.
In tali ambienti, gli adulti di riferimento possono esprimere dei giudizi globali per cui, in presenza di un comportamento sbagliato, i bambini tenderanno a valutarsi “in toto” come persone incapaci, perché non sarà il solo comportamento ad essere valutato come inadeguato, ma l’intera persona. Il bambino si potrà, dunque, sentire cattivo.
Tali modalità, possono portare il bambino e poi l’adulto a sperimentare un senso di vulnerabilità ed inadeguatezza che limita la libertà di espressione delle emozioni e delle azioni e a vergognarsi di compiere scelte che sentono non essere convalidate dall’ambiente affettivo, relazionale o sociale di riferimento.
Come può intervenire la psicoterapia?
La terapia può rappresentare un luogo dove sentirsi sostenuti, in cui l’approccio empatico diventa la modalità per accogliere il dolore dell’altro, dando dignità alla sua esperienza e in cui poter sperimentare la vergogna senza temere il rifiuto. In tal modo, la terapia può rappresentare uno spazio di trasformazione in cui poter dare dignità alle proprie debolezze e paure non sentendole come aspetti da allontanare e non percependosi come persone sbagliate.
In questo modo, poter dire a se stessi e agli altri che “non ce la facciamo” a fare qualcosa può rappresentare un gesto di attenzione e gentilezza nei confronti degli aspetti più fragili nostri ed altrui.